mercoledì 13 agosto 2014

Sole

Finalmente ho qualche minuto per appuntarmi qualche ricordo di questi giorni, in estrema sintesi.

Il viaggio per Leh è stato molto più impegnativo del previsto: 15 ore praticamente ininterrotte di sterrato, con 3 passi oltre i 5000 metri e senza mai scendere sotto i 4000. Panorami sorprendenti, per certi versi simili come colori a quelli andini, ma con brillanti macchie verdi di vegetazione nei fondi valle. Durante il viaggio un accompagnatore indiano è svenuto, pare per la quota... I due piloti si sono dati il cambio accompagnandoci sani e salvi a destinazione, attraverso guadi, ponti franati e riparati al momento, problemi meccanici ai freni sistemati direttamente sulla pista, un po' di paura e tante fotografie "al volo". Visto pochi animali, la Leo si è comunque entusiasmata per le numerose marmotte himalayane, più grosse e chiare delle nostrane.

Arriviamo a Leh alle 19, in anticipo di mezzora nonostante gli imprevisti, d'altronde gli ultimi 100km la strada è migliorata, permettendo al pilota di turno di sprigionare tutta la potenza del bus, con conseguente cardiopalma dei passeggeri. Ma poi saranno stati davvero imprevisti?!

Comunque subito scopriamo il mal di montagna. Appena arrivati a Leh, quota 3500 mslm, sia io che Leo siamo presi da forte mal di testa. Cerchiamo rapidamente una guest house dove riposarci, scegliamo senza verificare con la guida, bisognosi solo di un letto qualunque. L'edificio si presenta bene , il vecchietto che ci accoglie pare disponibile e cosi prendiamo una stanza grande senza bagno. Scopriamo presto che oltre alle lenzuola usate (che qui è normale) nelle coperte ci sono anche parecchi insetti...

Divoreranno Leo che si gratterà per diversi giorni a venire, nonostante un unguento di un bislacco colore rosa che ci fornirà il farmacista locale.

Fortunatamente comunque la mattina dopo ci trova molto più in forma, fiato corto, nausea e raffreddore, ma niente mal di testa. Ci convinciamo subito che ci servono almeno un paio di giorni per l'acclimatamento, così cominciamo con molta cautela l'esplorazione della città. Per prima cosa cambiamo guest house con una consigliata dalla guida: camera con vista su tutta la città, bagno in camera e... Lenzuola pulite! Ci sembra di essere in un hotel di lusso, ma spendiamo meno della notte con insetti. Questa inesplicabile (ai nostri occhi) mancanza di legame tra prezzo e servizio rimarrà un mistero dell'India anche nei giorni successivi.

Quindi ci aggiriamo per la città con il piglio da turista guardingo acquisito a Dely, ma presto sono i locali stessi che che lo dicono: Leh is safe. Che vuol dire che se qualcuno ti rivolge la parola non è automatico che voglia fregarti e che se chiedi aiuto in linea di massima lo ricevi. Il paradiso!

La città è piccola (10000 abitanti) e vivace alla maniera indiana: traffico rumoroso, animali, tanta gente in giro che non si capisce ben cosa faccia, assembramenti di persone per ogni esigenza.

Al tempo stesso si percepisce un'ossatura sottostante, un'organizzazione, uno spirito che a Dely non ho sentito (forse perché Dely è semplicemente troppo perché io possa comprenderla?). Gironzoliamo per il centro occupandoci delle commissioni necessarie dopo due giorni di viaggio, familiarizzando con la forma della città.

Impariamo presto che il sole è spietato ed anche che, risolto il mal di montagna, il fiato rimane corto comunque!

Visitiamo il palazzo reale, il tempio associato ed il forte sovrastante la città. Infine decidiamo di noleggiare una moto: Royal Enfield 350, con cui ci dirigeremo a Pangong Tso, 150km di strade himalayane con un passo 5'300 m...


Polvere

Ieri sera siamo partiti da New Delhi alla volta dell'Himalaya. Son passate circa 27 ore, ma mi sembra almeno una settimana!

Il tempo trascorso in città è stato giusto sufficiente per cominciare ad abituarsi ai costumi locali ed al clima. Un giorno di più sarebbe stato troppo impegnativo e logorante, un giorno meno non ci avrebbe permesso di abituarci al clima né di sviluppare gli opportuni anticorpi verso la confusione e la "organicità" dell'organizzazione locale.

E poi gli ultimi monumenti visti sono stati interessanti: a me è piaciuto soprattutto il museo della lotta per l'indipendnza, avvincente, coinvolgente e mi ha permesso di capire un po' di più di questo popolo. Leo credo abbia apprezzato soprattutto i sorprendenti vicoli di Old Dely, dove ogni incrocio ed ogni angolo nascondono sorprese.

Il viaggio in autobus verso le montagne è cominciato molto bene, con una suggestiva visone dei sobborghi di Dely al tramonto, purtroppo poi è andato peggiorando con una cena pessima e molto costosa, ed una strada trafficata, a curve, a buche, che mi ha fatto partire alquanto...

Arrivati in mattinata a Manali mi sembrava di essere sbarcato sulla luna, mi muovendo come in una bolla, stordito e disorientato. La fama di Manali la dipinge come un posto turistico, diviso in due frazioni: Old Manali paradiso per gli amanti della Charas, solo bar e guest house, e Manali città, che pare un po' Darfo Boario, alberghetti e turisti soprattutto indiani. Per noi è solo una tappa forzata, cosi, scoprendo un autobus in partenza per Leh dopo una sola ora dal nostro arrivo abbiamo colto l'occasione al volo.

Il viaggio durerà due giorni ed ora siamo sistemati in un campo tende a circa 1/3 del viaggio: finora il percorso è stato suggestivo, abbiamo superato un passo ad oltre 4000 metri e stiamo sperimentando l'assenza di ossigeno. Per ora niente mal di montagna, speriamo bene!


domenica 3 agosto 2014

Sudore

La prima giornata a Delhi è stata sorprendente, nonostante fossi pronto a non sorprendermi di niente.

Caos colori odori rumori caldo: tutto quello che mi aspettavo. Solo che la compresenza di tutti gli ingredienti genera una situazione indescrivibile, a cui non ci si può preparare e che è differente da qualunque cosa abbia mai provato.

All'inizio, questa mattina, avevo voglia di mescolarmi alla gente, di farmi trascinare nel vortice, in quello che voleva essere un drastico tuffo nell'India che sarà la mia casa per il prossimo mese.

Ho rapidamente cambiato idea!

Sbagliare un incrocio può voler dire (in una delle ipotesi migliori) trovarsi in una discarica in fermentazione, "dare corda" alla persona sbagliata (cioè quasi tutti) può significare perdere un'infinità di tempo ed agitarsi per niente, calcolare male tempi e distanze porta rapidamente allo sfinimento per temperature ed insolazione, prendere la metropolitana è letteralmente un viaggio nel viaggio, interessante, ma molto impegnativo e dispendioso in termini di tempo. Tutte esperienze capitate oggi...

Quindi? Abbiamo trovato tranquillità nei posti frequentati da turisti (e sorvegliati da guardie), refrigerio nei bar in stile occidentale, informazioni da guardie e poliziotti, abbiamo evitato di parlare chi ci fermava per strada e, per finire, Leo ha comprato perfino un disinfettante per le mani.

Insomma abbiamo adottato nostro malgrado il comportamento tipico del turista occidentale...

A parziale nostra discolpa posso dire che:
1) ci abbiamo provato, davvero, ma lo sforzo è stato superiore alle nostre risorse;
2) il disinfettante serviva per i piedi: visto dove li abbiamo messi oggi credo che lo avrebbe voluto a disposizione quasi chiunque;
3) il viaggio è lungo: non abbiamo fretta!

Quindi da domani adottiamo un approccio un po' più graduale e sono convinto che quando torneremo qui a Delhi, tra 3 settimane, ci sentiremo molto più a nostro agio. Come se fossimo a casa nostra. Quasi.

Facebook

Sabato sera. Torno a casa dopo il cinema ed un kebab al risotrante pakindiano e prima di andare a letto do un'occhiatata a Facebook. Non so perché l'ho fatto, non è mia abitudine. Forse essere a casa da solo in questi giorni mi ha fatto sentire il bisogno rafforzare la sensazione di appratenza ad una comunità, per ricordarmi che anche se nel letto ci vado da solo, ci sono comunque tante persone a cui sono legato che vivono intorno a me, a portata di “click”.

Nel mio “Diario” trovo le solite piccole cose senza alcuna importanza, frasi fatte, aforismi, postati da amici più o meno conosciuti, animati da regressioni più o meno adolescienziali. C'è anche qualcosa di interessante, eventi a cui forse parteciperò (e lo dichiaro). Scorrendo i post mi imbatto in uno che attira la mia attenzione per il numero di commenti (qualche decina): riferendosi ad un grave fatto di cronaca che ha come protagonisti degli stranieri l'autore, che pur conoscendo non ho incluso tra i miei amici, inneggia in maniera brutale e bifolca alla pena di morte per tutti gli stranieri che osano far cose del genere sul territorio italiano. Li per li rimango infastidito dalla bieca manifestazione di ignoranza e piccolezza del personaggio in questione, ma, invece di passare oltre, vengo spitno da quel particolare gusto dell'orrido che a volte mi costringe a puntare la mia attenzione su dettagli macabri, e mi inoltro tra i commenti. Ne leggo alcuni e rimango sbigottito dal coro di approvazioni e sostegno ricevuti da altri. Nessuna voce fuori tema. Tutti compatti e determinati verso l'obiettivo: il ristabilimento di una forma di giustizia attraverso l'eliminazione fisica del malfattore (= straniero).

“Adesso rispondo anch'io”, mi dico. Ma mi rendo subito conto che è inutile: mi documenterei sull'episdio, sintetizzerei il mio pensiero in 10 parole e probabilmente nessuno dei coinvolti capirebbe davvero il mio punto. Sarei molto liquidato con un silenzio di disappunto o magari, il che sarebbe sarebbe meglio, da un coro di improperi. In ogni caso non servirebbe a far cambiare la loro opinione.

Così sono anato a dormire. Ma mentre ero nel letto non ho potuto fare a meno di pensare per qualche minuto attorno alla vicenda. Perché quel post, per me così sgradevole, è finito sul “mio” diario? Un errore di valutazione di qualche “robot” nell'analisi dei miei interessi? Chissà se si potrebbe configurare qualche forma di lesione dei miei diritti a carico di Facebook per avermi sottoposto un contenuto così contrario al mio modo di essere.

E poi: ho fatto bene a non scrivere niente? Chissà se altre persone si sono scoraggiate come me. E chissà cosa sarebbe successo se invece qualcuno avesse postato un'opinione contraria. Magari invece del previsto silenzio sarebbe nata una feroce discussione. Che con ogni probabilità sarebbe rapidamente degenerata nell'insulto puro.

La riflessione forse più importante: le persone che con orgoglio scrivono cose come quelle che ho letto cercano proprio il sostegno e l'approvazione di quelli che la pensano come loro. Il fatto di avere 10 persone che li sostengono li esalta e li illude di essere potavoci di opinioni diffuse, illuminati opinionisti e detentori della vera giustizia. Non vogliono rendersi conto che per ogni decina di persone che li sostiene ce n'è almeno un centinaio che li disprezza. Se se ne accorgessero, se per ogni post a tema ricevessero vagoni di insulti ed improperi (legittimi, così come è legittimo il loro post) sono sicuro che smetterebbero rapidamente di scrivere.

Da qui la mia conclusione. E' importante far capire a questi personaggi che ci sono persone (poche? Tante? Sicuramente molte più di “loro”) che la pensano diversamente. Non nel senso di una differenza di prospettive, ma proprio di una radicale divergenza nella visone del mondo. Devono altresì avere chiaro in mente che frasi come quelle che non so perché sono finite sul mio diario, costituiscono un vero e proprio insulto per alcune persone. Nel momento in cui le scrivono devono percepire che il giudizio di molti pesa sulle loro spalle, che facendo così attirano il disappunto, il biasimo, il ribrezzo di altri esseri umani. Devono sentirsi soli e meschini.

Il difficile sta nel condurre questa azione seza abbassarsi al loro livello. La comunicazione deve passare, forte e chiara, ma senza che traspaia nessuna pulsione, nessun basso istinto, nessun insulto. Perché anche se questi ci sono, la ragione deve rimanere comunque più forte e tenere il controllo di tutto. Bisognerebbe elaborare un “manifesto per il controllo dell'intolleranza sui social network”.

mercoledì 28 agosto 2013

Domenica


Oggi, domenica, mi sono alzato alle 8, avendo in programma una lussuosa colazione al bar con cappuccio, brioche e tranquilla lettura del giornale. Un po' da pensionati, lo so.
Esco di casa e nelle poche centinaia di metri che dividono Corso Garibaldi da Piazza Duomo molte cose colpiscono i miei sensi ed attirano la mia attenzione. Il loro insieme ha rapidamente cominciato a farmi ragionare.

Il Sole. Un sole caldo, ma con una leggera brezza che classifica queste prime ore di una domenica di metà luglio in quel ristretto gruppo di mezze giornate in cui sperimento “il clima ideale”. Quel particolare connubio di temperatura, umidità e brezza per cui sembra che il mio corpo non scambi energia con l'ambiente circostante. Una sensazione così piacevole che mi riconduce a pensare agli evidenti effetti di milioni di anni della nostra evoluzione su questo pianeta.

C'è poca gente in giro, ormai chi può sta cercando di partire per le vacanze, le scuole son finite, i negozi sono chiusi, quasi tutti. Chi rimane in città? Gli stranieri. Sono loro i principali animatori del carmine a quest'ora di domenica mattina. “Loro” sono di tutti i colori. Indaffarati nei loro negozi di fruttivendolo, di parrucchiere (anche alle 8 di domenica!), di paccottiglia a 1 euro, o che passeggiano lentamente. Uomini soli o in gruppo, famiglie con bambini, coppie, donne. Ogni gruppo parla una lingua diversa ed io provo sempre una punta d'orgoglio quando sento che l'italiano è stato scelto da due di loro come lingua d'incontro.

Ed in questo quadro io sono uno dei tanti, rappresentante di una minoranza, uno straniero anch'io! Scopro con sorpresa che la sensazione mi piace. E la analizzo.

E' inutile girarci intorno: ci son diverse cose che non mi piacciono nella nostra società. Non mi riconosco negli obiettivi che la maggioranza delle persone della mia età si dà (accetta di darsi). Non voglio soldi, non voglio fama, né riconoscimenti, né potere. Più pragmaticamente, non voglio un'auto, un cellulare potente, non voglio lussi in casa mia, non voglio la televisione, né far vacanze in posti famosi. Però vorrei cambiare il mondo, nel limite di ciò che le mie forze mi permettono, anche se questo può voler dire solo dargli una spintarella nella direzione giusta. Per questo ho fatto scelte soprattutto lavorative che mi hanno penalizzato dal punto di vista economico e del riconoscimento sociale. Non mi lamento, anzi ne vado fiero, ma ne percepisco anche il peso. Voglio vivere fuori dai binari, non tanto, in fondo non sono un ribelle, solo quanto basta per farmi sentire bene con me stesso, non transigendo su alcuni temi che ritengo fondamentali e che vedo non rispettati. Questa scelta porta con se il fatto che per me molte cose siano un po' più difficili che per gli altri.

Non sono solo. Molti altri amici, ognuno a suo modo, hanno fatto scelte fuori dagli schemi, ed anche loro, come me, ne pagano le conseguenze. Sono sparpagliati in diverse parti d'Italia e del mondo, ed è sempre bello confrontarsi con loro, condividendo successi e sfortune. Anche se in questo periodo il ritornello è sempre il medesimo: poco lavoro, mal pagato, torno dai genitori o mi faccio aiutare da loro.

Camminando per le vie del Carmine questa mattina ho però provato la sensazione che tutti fossero fuori dagli schemi! Che la grande maggioranza delle persone che mi vive a fianco, nel mio quartiere, per diversi motivi, è un “fuori”. La maggioranza dei miei vicini di casa ha problemi molto più grossi dei miei e non perché se li è cercati, perché ha sbagliato qualcosa o perché è un ribelle: solo per il fatto di essere nato (o di avere genitori nati) fuori dall'Italia!

E così mi sento a casa, comprendo le loro istanze e mi identifico con loro, e mi piace illudermi che anche loro possano capire le mie.

Questa mattina, in pochi minuti di camminata, ho visto bambini di diverse nazionalità giocare insieme, ho visto una persona rispondere rabbiosamente ad una richiesta d'aiuto di un mendicante, ho visto una pazza fermare le persone per strada per fare due chiacchiere sconclusionate, ho visto una donna raffinata camminare con il tacco ed il cappello in corso Mameli, e vicino a lei, seduti per terra ho visto persone volgari mettersi le dita nel naso e tagliarsi le unghie dei piedi, ho visto commercianti volenterosi pulire una fontana sporca, ho visto cani cagare e padroni raccogliere, piccioni contendersi pezzi di pane, una signora appena sveglia che apriva le tende della camera. E questo è un'infinitesimo assaggio limitatissimo nello spazio e nel tempo della Realtà.

Tutta questa varietà di vite è il punto da cui partire per immaginare il nostro futuro. Indietro non si torna. Integrazione, collaborazione, tolleranza, questa è la strada per l'evoluzione della società. Non ci sono alternative, chiunque abbia in mente qualcosa di diverso sta sbagliando, è miope o si illude di poter controllare forze che, essendo forze della natura, sono più potenti di qualunque strumento legislativo o tecnologico l'uomo possa concepire.

Gli ignoranti semplificano (noi qui, loro la), gli insoddisfatti recriminano (è tutta colpa loro), i rabbiosi insultano (non sono al nostro livello), i bigotti predicano (cancelleranno la nostra cultura, religione, tradizioni), i pavidi evitano i contatti. Le persone coraggiose ed intelligenti, invece, studiano, cercano di capire, entrano in contatto, condividono, aiutano.

Ed il futuro darà loro ragione.

sabato 6 aprile 2013

Mosaici frattali e l'arrivo delle rondini



Ci sono giorni in cui tutto sembra andare a posto. Come le tessere colorate di un mosaico, le mie idee, concretizzate in attività più o meno impegnative, sembrano comporsi in un quadro coerente e completo. Sono questi dei momenti speciali, in cui mi sento fiducioso delle mie capacità e delle scelte fatte, ma soprattutto, mi sento al posto giusto. Già, perché tra le tessere del mosaico alcune le metto io, ma molte sono già sul tavolo, lasciate da altre persone o sono semplicemente elementi fissi, confini e vincoli a cui devo adattarmi.

Questi momenti li raggiungo sporadicamente, spesso dopo un lungo lavoro di adattamento, spostando a fatica altre tessere, cercando incastri nuovi attorno agli elementi di vincolo e spesso rinunciando ad utilizzare alcuni dei miei elementi, magari proprio quelli dei miei colori preferiti.

Sono momenti di tranquillità e soddisfazione. La vita mi sembra semplice, il futuro sicuro. Sono fiducioso e sereno.

Purtroppo, però, tutto questo dura per pochi istanti, al più qualche giorno. Perché rimirando la mia opera, mi accorgo che gli elementi fissi si sono spostati, o che qualcuno mi ha portato via qualche tessera, o che alcuni elementi hanno cambiato colore. E, se guardo attentamente, questo succede perché ogni tessera è a sua volta composta da altri elementi più piccoli, infinitesimi, in un puzzle frattale di una complessità inafferrabile. Quindi mi trovo a dover continuare l'opera, con meno entusiasmo e più precisione, cesellando, rifinendo, per cercare di mantenere ordine nel quadro che continua a mutare. A volte penso di rinunciare, lasciando che tutto cambi senza il mio controllo, lasciando che l'immagine diventi indistinta o che assuma altre forme.

Questo però non è da me, in realtà non riesco mai ad abbandonare veramente la mia creazione, ed allo stesso tempo mi pesa molto. Ho la sensazione di lavorare a vuoto, di essere costretto dalla contingenza ad un'estenuante attività che non ha in sé alcun valore creativo, che non aggiunge niente al quadro. Ed in realtà per la maggior parte del tempo mi sento impotente, in balia di forze che non comprendo e che mi sovrastano. Reagisco a questa sensazione con l'iperattività, esplorando diverse strade allo stesso tempo, attivandomi in maniera convulsa e comunque poco produttiva. Continuando nella metafora, compongo tanti mosaici, contemporaneamente.

Con questi paragrafi tento di descrivere le mie riflessioni in questo strano periodo della mia vita. Ho tanti dubbi, tante domande a cui non trovo risposta, sono ansioso, insoddisfatto, ben al di là della mia innata irrequietezza. Prima ho scritto che la contingenza mi costringe in questa situazione, ma cos'è questa contingenza? Faccio fatica ad afferrarne completamente la natura, ma posso dire che, in generale, è la crisi, la mancanza di stabilità, il continuo cambiamento delle regole, la nascita continua di opportunità che poi si dimostrano effimere, l'impossibilità di fare proiezioni sul futuro.

Sono giovane, sono sveglio, so fare bene molte cose ed alcune anche con un elevato grado di specializzazione. Eppure non sono in grado di trovare una direzione certa da dare alla mia vita. Questo vale per la vita lavorativa, ma inevitabilmente anche per quella privata che trova nel lavoro le risorse per compiersi.

Cosa vorrà il mondo da me? Sono pronto a fare qualunque cosa, ma devo avvertire la sensazione che sia la cosa giusta. Non riesco ad accontentarmi di avere uno stipendio a fine mese, con un lavoro qualsiasi. Voglio che la mia energia sia indirizzata verso il bene comune, voglio che i miei progetti siano a vantaggio della collettività. Voglio lavorare per il futuro, ed in questo periodo di cambiamento voglio essere sicuro di muovermi nella direzione giusta, di essere tra gli artefici di quel nuovo che, in maniera confusa, si sta facendo largo nelle nostre vite. Eppure non riesco a trovare questa sicurezza, non riesco a leggere con la chiarezza necessaria questi momenti. Prendo cantonate, sbando, ed ogni volta mi rimetto in carreggiata, ma con sempre meno convinzione che la meta sia quella giusta, intendendo con ciò quella che il mondo vuole per me.

Ed in tutto questo riemerge la mia anima contemplativa, forse sopita da un po' di tempo. Mi capita spesso di fermarmi a guardare dettagli, paesaggi, persone. A volte non mi serve nemmeno fermarmi: camminando, guidando o stando seduto in qualche mezzo di trasporto scatto una foto mentale e poi ci penso. Osservo dettagli, elementi minuti ed invisibili ai più, in cui mi piace trovare una storia: possono essere strane pietre murate agli angoli delle strade, un corrimano levigato dal passaggio di infinite persone, particolari geometrie del selciato, un cancello sbilenco decorato in ferro battuto. Osservo paesaggi naturali, mutevoli ed immutabili allo stesso tempo, contemplo la città brulicante di attività sforzandomi di identificare i segni del tempo che passa: nuovi edifici, strade senza più traffico cantieri chiusi ed aperti. Nelle persone cerco di immaginarmi la vita dietro ai loro volti: come sarà la loro famiglia, la loro casa, il loro lavoro, a cosa staranno pensando in questo momento?

Forse dietro a questa mi tendenza alla contemplazione sta la necessità di avere percezione del tempo. Ho bisogno di vedere come il mondo sta cambiando per poter estrapolare la tendenza al cambiamento futuro. Credo che la motivazione sia proprio questa: nell'osservazione del mondo cerco i segni del tempo, nella speranza che questi segni mi indichino la strada da percorrere da ora in poi.

Però la mia ansia, la mia irrequietezza non può dipendere solo da cause esterne, quelle che ho provato ad analizzare fin qui. Vorrei trovare l'origine interna di questo malessere: perché non riesco a vivere serenamente questo momento di transizione, come mai non riesco ad adattarmi a questa particolare situazione? Molte persone credo che siano in grado di metabolizzare bene la mancanza di certezze: forse concentrandosi su ciò che di più solido hanno nella vita, magari la famiglia, il compagno, gli amici, e non si pongono domande difficili su quale destino il mondo ha in serbo per loro. Non vuol dire vivere alla giornata, ma vivere senza curarsi del fatto che la strada su cui viaggiano potrebbe non portare da nessuna parte.

Io non ci riesco. Mi piace cullarmi nell'ipotesi che quello che provo sia una forma di istinto di conservazione ereditato dai miei avi contadini e montanari: costretti a interpretare i segni della natura per non farsi mai sorprendere dalle difficoltà. Loro sapevano che dalla primavera all'autunno si dovevano accumulare scorte per superare l'inverno. Però loro conoscevano bene le stagioni e quindi potevano interpretare con facilità il mutare del tempo. Potevano capitare anche inondazioni, o periodi di siccità che portava carestia, ma anche questi fenomeni erano in realtà periodici, conosciuti, se non direttamente, attraverso la cultura tramandata dalle generazioni precedenti: nell'inondazione si sapeva che c'erano specifici territori che rimanevano all'asciutto, nella carestia c'erano prodotti dei boschi che, anche se non gradevoli, si potevano mangiare.

Se le cose stanno effettivamente così, questo istinto di conservazione oggi mi sta mettendo in guardia perché ciò che stiamo fronteggiando è una piaga completamente nuova. Non c'è traccia nel nostro DNA di nessuna indicazione su come affrontare questa situazione. Qui non si tratta di morire di fame o annegati, ma di un'egualmente pericolosa deriva di tutta la nostra società, forse del mondo intero.

Tutti questi ragionamenti credo mi abbiano chiarito l'origine e le motivazioni del mio malessere. Sono soddisfatto di questa analisi, credo di aver fatto qualche passo avanti. Però mi manca la sintesi: che indicazioni operative posso estrarre da tutto questo? Come liberarmi dall'ansia che fa da sottofondo a tutte le mie giornate?

Non ho una risposta. Però, più tardi, dedicherò qualche minuto ad osservare le rondini, che oggi sono tornate a solcare i nostri cieli. Penserò ai loro viaggi ed alla loro vita, qualche breve anno a cavallo di due continenti, tutta protesa alla prosecuzione della specie, nonostante i pesticidi, le reti, la distruzione dei loro nidi e dei loro habitat preferiti. Anche loro sono guidate dall'istinto di conservazione, ma senza la zavorra della razionalità. Cercherò risposte nelle loro traiettorie.

martedì 3 agosto 2010