mercoledì 28 agosto 2013

Domenica


Oggi, domenica, mi sono alzato alle 8, avendo in programma una lussuosa colazione al bar con cappuccio, brioche e tranquilla lettura del giornale. Un po' da pensionati, lo so.
Esco di casa e nelle poche centinaia di metri che dividono Corso Garibaldi da Piazza Duomo molte cose colpiscono i miei sensi ed attirano la mia attenzione. Il loro insieme ha rapidamente cominciato a farmi ragionare.

Il Sole. Un sole caldo, ma con una leggera brezza che classifica queste prime ore di una domenica di metà luglio in quel ristretto gruppo di mezze giornate in cui sperimento “il clima ideale”. Quel particolare connubio di temperatura, umidità e brezza per cui sembra che il mio corpo non scambi energia con l'ambiente circostante. Una sensazione così piacevole che mi riconduce a pensare agli evidenti effetti di milioni di anni della nostra evoluzione su questo pianeta.

C'è poca gente in giro, ormai chi può sta cercando di partire per le vacanze, le scuole son finite, i negozi sono chiusi, quasi tutti. Chi rimane in città? Gli stranieri. Sono loro i principali animatori del carmine a quest'ora di domenica mattina. “Loro” sono di tutti i colori. Indaffarati nei loro negozi di fruttivendolo, di parrucchiere (anche alle 8 di domenica!), di paccottiglia a 1 euro, o che passeggiano lentamente. Uomini soli o in gruppo, famiglie con bambini, coppie, donne. Ogni gruppo parla una lingua diversa ed io provo sempre una punta d'orgoglio quando sento che l'italiano è stato scelto da due di loro come lingua d'incontro.

Ed in questo quadro io sono uno dei tanti, rappresentante di una minoranza, uno straniero anch'io! Scopro con sorpresa che la sensazione mi piace. E la analizzo.

E' inutile girarci intorno: ci son diverse cose che non mi piacciono nella nostra società. Non mi riconosco negli obiettivi che la maggioranza delle persone della mia età si dà (accetta di darsi). Non voglio soldi, non voglio fama, né riconoscimenti, né potere. Più pragmaticamente, non voglio un'auto, un cellulare potente, non voglio lussi in casa mia, non voglio la televisione, né far vacanze in posti famosi. Però vorrei cambiare il mondo, nel limite di ciò che le mie forze mi permettono, anche se questo può voler dire solo dargli una spintarella nella direzione giusta. Per questo ho fatto scelte soprattutto lavorative che mi hanno penalizzato dal punto di vista economico e del riconoscimento sociale. Non mi lamento, anzi ne vado fiero, ma ne percepisco anche il peso. Voglio vivere fuori dai binari, non tanto, in fondo non sono un ribelle, solo quanto basta per farmi sentire bene con me stesso, non transigendo su alcuni temi che ritengo fondamentali e che vedo non rispettati. Questa scelta porta con se il fatto che per me molte cose siano un po' più difficili che per gli altri.

Non sono solo. Molti altri amici, ognuno a suo modo, hanno fatto scelte fuori dagli schemi, ed anche loro, come me, ne pagano le conseguenze. Sono sparpagliati in diverse parti d'Italia e del mondo, ed è sempre bello confrontarsi con loro, condividendo successi e sfortune. Anche se in questo periodo il ritornello è sempre il medesimo: poco lavoro, mal pagato, torno dai genitori o mi faccio aiutare da loro.

Camminando per le vie del Carmine questa mattina ho però provato la sensazione che tutti fossero fuori dagli schemi! Che la grande maggioranza delle persone che mi vive a fianco, nel mio quartiere, per diversi motivi, è un “fuori”. La maggioranza dei miei vicini di casa ha problemi molto più grossi dei miei e non perché se li è cercati, perché ha sbagliato qualcosa o perché è un ribelle: solo per il fatto di essere nato (o di avere genitori nati) fuori dall'Italia!

E così mi sento a casa, comprendo le loro istanze e mi identifico con loro, e mi piace illudermi che anche loro possano capire le mie.

Questa mattina, in pochi minuti di camminata, ho visto bambini di diverse nazionalità giocare insieme, ho visto una persona rispondere rabbiosamente ad una richiesta d'aiuto di un mendicante, ho visto una pazza fermare le persone per strada per fare due chiacchiere sconclusionate, ho visto una donna raffinata camminare con il tacco ed il cappello in corso Mameli, e vicino a lei, seduti per terra ho visto persone volgari mettersi le dita nel naso e tagliarsi le unghie dei piedi, ho visto commercianti volenterosi pulire una fontana sporca, ho visto cani cagare e padroni raccogliere, piccioni contendersi pezzi di pane, una signora appena sveglia che apriva le tende della camera. E questo è un'infinitesimo assaggio limitatissimo nello spazio e nel tempo della Realtà.

Tutta questa varietà di vite è il punto da cui partire per immaginare il nostro futuro. Indietro non si torna. Integrazione, collaborazione, tolleranza, questa è la strada per l'evoluzione della società. Non ci sono alternative, chiunque abbia in mente qualcosa di diverso sta sbagliando, è miope o si illude di poter controllare forze che, essendo forze della natura, sono più potenti di qualunque strumento legislativo o tecnologico l'uomo possa concepire.

Gli ignoranti semplificano (noi qui, loro la), gli insoddisfatti recriminano (è tutta colpa loro), i rabbiosi insultano (non sono al nostro livello), i bigotti predicano (cancelleranno la nostra cultura, religione, tradizioni), i pavidi evitano i contatti. Le persone coraggiose ed intelligenti, invece, studiano, cercano di capire, entrano in contatto, condividono, aiutano.

Ed il futuro darà loro ragione.

sabato 6 aprile 2013

Mosaici frattali e l'arrivo delle rondini



Ci sono giorni in cui tutto sembra andare a posto. Come le tessere colorate di un mosaico, le mie idee, concretizzate in attività più o meno impegnative, sembrano comporsi in un quadro coerente e completo. Sono questi dei momenti speciali, in cui mi sento fiducioso delle mie capacità e delle scelte fatte, ma soprattutto, mi sento al posto giusto. Già, perché tra le tessere del mosaico alcune le metto io, ma molte sono già sul tavolo, lasciate da altre persone o sono semplicemente elementi fissi, confini e vincoli a cui devo adattarmi.

Questi momenti li raggiungo sporadicamente, spesso dopo un lungo lavoro di adattamento, spostando a fatica altre tessere, cercando incastri nuovi attorno agli elementi di vincolo e spesso rinunciando ad utilizzare alcuni dei miei elementi, magari proprio quelli dei miei colori preferiti.

Sono momenti di tranquillità e soddisfazione. La vita mi sembra semplice, il futuro sicuro. Sono fiducioso e sereno.

Purtroppo, però, tutto questo dura per pochi istanti, al più qualche giorno. Perché rimirando la mia opera, mi accorgo che gli elementi fissi si sono spostati, o che qualcuno mi ha portato via qualche tessera, o che alcuni elementi hanno cambiato colore. E, se guardo attentamente, questo succede perché ogni tessera è a sua volta composta da altri elementi più piccoli, infinitesimi, in un puzzle frattale di una complessità inafferrabile. Quindi mi trovo a dover continuare l'opera, con meno entusiasmo e più precisione, cesellando, rifinendo, per cercare di mantenere ordine nel quadro che continua a mutare. A volte penso di rinunciare, lasciando che tutto cambi senza il mio controllo, lasciando che l'immagine diventi indistinta o che assuma altre forme.

Questo però non è da me, in realtà non riesco mai ad abbandonare veramente la mia creazione, ed allo stesso tempo mi pesa molto. Ho la sensazione di lavorare a vuoto, di essere costretto dalla contingenza ad un'estenuante attività che non ha in sé alcun valore creativo, che non aggiunge niente al quadro. Ed in realtà per la maggior parte del tempo mi sento impotente, in balia di forze che non comprendo e che mi sovrastano. Reagisco a questa sensazione con l'iperattività, esplorando diverse strade allo stesso tempo, attivandomi in maniera convulsa e comunque poco produttiva. Continuando nella metafora, compongo tanti mosaici, contemporaneamente.

Con questi paragrafi tento di descrivere le mie riflessioni in questo strano periodo della mia vita. Ho tanti dubbi, tante domande a cui non trovo risposta, sono ansioso, insoddisfatto, ben al di là della mia innata irrequietezza. Prima ho scritto che la contingenza mi costringe in questa situazione, ma cos'è questa contingenza? Faccio fatica ad afferrarne completamente la natura, ma posso dire che, in generale, è la crisi, la mancanza di stabilità, il continuo cambiamento delle regole, la nascita continua di opportunità che poi si dimostrano effimere, l'impossibilità di fare proiezioni sul futuro.

Sono giovane, sono sveglio, so fare bene molte cose ed alcune anche con un elevato grado di specializzazione. Eppure non sono in grado di trovare una direzione certa da dare alla mia vita. Questo vale per la vita lavorativa, ma inevitabilmente anche per quella privata che trova nel lavoro le risorse per compiersi.

Cosa vorrà il mondo da me? Sono pronto a fare qualunque cosa, ma devo avvertire la sensazione che sia la cosa giusta. Non riesco ad accontentarmi di avere uno stipendio a fine mese, con un lavoro qualsiasi. Voglio che la mia energia sia indirizzata verso il bene comune, voglio che i miei progetti siano a vantaggio della collettività. Voglio lavorare per il futuro, ed in questo periodo di cambiamento voglio essere sicuro di muovermi nella direzione giusta, di essere tra gli artefici di quel nuovo che, in maniera confusa, si sta facendo largo nelle nostre vite. Eppure non riesco a trovare questa sicurezza, non riesco a leggere con la chiarezza necessaria questi momenti. Prendo cantonate, sbando, ed ogni volta mi rimetto in carreggiata, ma con sempre meno convinzione che la meta sia quella giusta, intendendo con ciò quella che il mondo vuole per me.

Ed in tutto questo riemerge la mia anima contemplativa, forse sopita da un po' di tempo. Mi capita spesso di fermarmi a guardare dettagli, paesaggi, persone. A volte non mi serve nemmeno fermarmi: camminando, guidando o stando seduto in qualche mezzo di trasporto scatto una foto mentale e poi ci penso. Osservo dettagli, elementi minuti ed invisibili ai più, in cui mi piace trovare una storia: possono essere strane pietre murate agli angoli delle strade, un corrimano levigato dal passaggio di infinite persone, particolari geometrie del selciato, un cancello sbilenco decorato in ferro battuto. Osservo paesaggi naturali, mutevoli ed immutabili allo stesso tempo, contemplo la città brulicante di attività sforzandomi di identificare i segni del tempo che passa: nuovi edifici, strade senza più traffico cantieri chiusi ed aperti. Nelle persone cerco di immaginarmi la vita dietro ai loro volti: come sarà la loro famiglia, la loro casa, il loro lavoro, a cosa staranno pensando in questo momento?

Forse dietro a questa mi tendenza alla contemplazione sta la necessità di avere percezione del tempo. Ho bisogno di vedere come il mondo sta cambiando per poter estrapolare la tendenza al cambiamento futuro. Credo che la motivazione sia proprio questa: nell'osservazione del mondo cerco i segni del tempo, nella speranza che questi segni mi indichino la strada da percorrere da ora in poi.

Però la mia ansia, la mia irrequietezza non può dipendere solo da cause esterne, quelle che ho provato ad analizzare fin qui. Vorrei trovare l'origine interna di questo malessere: perché non riesco a vivere serenamente questo momento di transizione, come mai non riesco ad adattarmi a questa particolare situazione? Molte persone credo che siano in grado di metabolizzare bene la mancanza di certezze: forse concentrandosi su ciò che di più solido hanno nella vita, magari la famiglia, il compagno, gli amici, e non si pongono domande difficili su quale destino il mondo ha in serbo per loro. Non vuol dire vivere alla giornata, ma vivere senza curarsi del fatto che la strada su cui viaggiano potrebbe non portare da nessuna parte.

Io non ci riesco. Mi piace cullarmi nell'ipotesi che quello che provo sia una forma di istinto di conservazione ereditato dai miei avi contadini e montanari: costretti a interpretare i segni della natura per non farsi mai sorprendere dalle difficoltà. Loro sapevano che dalla primavera all'autunno si dovevano accumulare scorte per superare l'inverno. Però loro conoscevano bene le stagioni e quindi potevano interpretare con facilità il mutare del tempo. Potevano capitare anche inondazioni, o periodi di siccità che portava carestia, ma anche questi fenomeni erano in realtà periodici, conosciuti, se non direttamente, attraverso la cultura tramandata dalle generazioni precedenti: nell'inondazione si sapeva che c'erano specifici territori che rimanevano all'asciutto, nella carestia c'erano prodotti dei boschi che, anche se non gradevoli, si potevano mangiare.

Se le cose stanno effettivamente così, questo istinto di conservazione oggi mi sta mettendo in guardia perché ciò che stiamo fronteggiando è una piaga completamente nuova. Non c'è traccia nel nostro DNA di nessuna indicazione su come affrontare questa situazione. Qui non si tratta di morire di fame o annegati, ma di un'egualmente pericolosa deriva di tutta la nostra società, forse del mondo intero.

Tutti questi ragionamenti credo mi abbiano chiarito l'origine e le motivazioni del mio malessere. Sono soddisfatto di questa analisi, credo di aver fatto qualche passo avanti. Però mi manca la sintesi: che indicazioni operative posso estrarre da tutto questo? Come liberarmi dall'ansia che fa da sottofondo a tutte le mie giornate?

Non ho una risposta. Però, più tardi, dedicherò qualche minuto ad osservare le rondini, che oggi sono tornate a solcare i nostri cieli. Penserò ai loro viaggi ed alla loro vita, qualche breve anno a cavallo di due continenti, tutta protesa alla prosecuzione della specie, nonostante i pesticidi, le reti, la distruzione dei loro nidi e dei loro habitat preferiti. Anche loro sono guidate dall'istinto di conservazione, ma senza la zavorra della razionalità. Cercherò risposte nelle loro traiettorie.